Lavoro, paesaggio: un vino. La parola per dirlo.

Raramente ho difficoltà a trovare la parola giusta per raccontare qualcosa che guardo o che sento; le parole mi nascono dentro e quasi tutte vengono da lontano, anche nel tempo: sono figlie della mia storia di lavoro e le nutro continuamente, cercando, ogni volta che sento il bisogno di spiegare, quella che si attagli – come una pianta arrampicata – a quel sentimento a una sua sfumatura, al senso preciso di qualcosa che vorrei comunicare.
Eppure, se mi riferisco al lavoro di pubblicitaria, sono nata con la matita – facevo l’art director -. Il lavoro dell’art prevede un dialogo continuo con un copywriter, il che però non significa affatto che l’uno si occupi di scrivere i testi e l’altro pensi e realizzi la parte visiva. Non succede così, perché entrambi hanno il compito di mettere a punto un messaggio, che sarà poi declinato in varie forme su alcuni o su molti media. E’ un lavoro all’unisono.

La mia storia però inizia un po’ prima, in un altro luogo che può sembrare più astratto dell’agenzia di pubblicità. Il caso mi ha messo in contatto, quando ero ancora giovanissima e stavo iniziando a frequentare l’Accademia di Belle Arti (a Brera, allieva di Achille Funi), con luogo speciale, forse unico in Italia. Era un ufficio diretto da un uomo visionario di cui parlerò un’altra volta; in quell’ufficio ho conosciuto i designer da cui ho imparato che le parole hanno un significato – e questo lo sappiamo tutti – un senso che può cambiare, a seconda di come sono scritte – colori, forme, “caratteri” (che adesso si chiamano font, però provate a immaginare che cosa significhi “carattere”), e altri elementi che ne rendono diverso il significato.
Non tutti lo sanno razionalmente; alcuni usano questi strumenti in modo spontaneo e inconsapevole; poi ci sono i graphic designer che sanno (anche) che forma dare a una parola perché se ne colga perfettamente il senso.
A volte però una parola, anche scritta con lo stile consono, non è sufficiente a raccontare quello che uno sente. Credo che possa dipendere anche dalla ricchezza del vocabolario conosciuto, ma a volte la parola manca proprio perché non si ha qualcosa di precisabile, di concreto, da dire …
… a me succede così e mi chiedo se non sia per questo che ogni tanto mi viene naturale l’impulso di disegnare. Non sento discontinuità tra scrivere (a mano) e disegnare, confesso che mettendo la mano sul foglio mi capita di pensare a una parola e poi mi ritrovo a compitare dei segni che forse traducono meglio quello che ho in mente.

Non so quanto sia stata determinante la mia storia di lavoro, con la conoscenza acquisita dai grandi maestri con cui sono stata in contatto (Bruno Munari, Enzo Mari, Max Huber, Albe Steiner, Lora Lamm, …), o quanto giochi una predisposizione ad usare più ‘modi’ di esprimersi; tuttavia mi sono ritrovata molte volte a cogliere un paesaggio, pensando di scriverne e invece lo stavo disegnando.
Può succedere anche con un lettering, cioè con i “caratteri”(font) usati per chiamare qualcosa.
In questo caso mi riferisco a un vino che ha un nome in etichetta – Rosa – ed è un vino rosato, ovviamente. Ma per quel nome non è stato usato un carattere esistente, bensì delle lettere disegnate ad hoc. Disegnate? Be’, non proprio, perché ogni lettera che compone la parola -Rosa- in realtà è come se fosse scritta. Ogni lettera è fatta con un texture, una sorta di tessitura di segni minuscoli e diversi uno dall’altro.
I segni sono nati da una riflessione quasi inconsapevole, quasi una reazione, al lavoro sulla terra, alle tracce che gli strumenti disegnano sul suolo, creando un racconto, buono per chi lo sa leggere, oppure sente di capirlo e gli piace seguirlo. Non è qualcosa di razionale, ma è quasi automatico, è la voglia di fare quel lavoro, fare quei gesti e lasciare quei segni; o magari addirittura immergervisi e diventare proprio come un campo, un vigneto, un bosco. Oppure essere come il vino nato da  quel lavoro e messo in quella bottiglia. La parola per dirlo bene, lo dice meglio se la scrivi (o la disegni) in modo da far sentire agli altri quello che senti tu.

La Mercedes che non so dove sia

Quando, anni fa, a un tale con cui stavo chiacchierando di lavoro avevo mostrato un’affichette che illustrava i libri di Garcia Marquez, mentre gli stavo raccontando il primo incontro con il grande scrittore, cogliendomi di sorpresa, questi mi chiese “e chi è ‘sto Garcia Marquez?”. Io avevo risposto che era un signore con una moglie che si chiamava Mercedes ma non era un’auto. Era una battuta, venuta lì per lì, una forma di esasperazione trattenuta, per la sua non conoscenza di un personaggio che aveva acceso l’immaginazione di almeno due generazioni di lettori, e non solo; una battuta solo a metà, perché forse lui è rimasto con l’idea dell’auto e io non me la sono sentita di impegnarmi raccontandogli di Macondo, della casa di calle Fuego a Città del Messico, dei racconti raminghi, né del premio Nobel. Tagliai corto poi, non ricordo bene come. Nel frattempo Gabo è morto e ora la Mercedes, quella che non era un’auto – quella a cui veniva dedicato ogni libro in pubblicazione (“para Mecedes por supuesto”) – lo ha raggiunto in un immaginario magico almeno quanto quello che Garcia Marquez aveva saputo raccontarci con i libri.
Ma quasi dappertutto e anche nei luoghi dove vive quell’uomo che mi fece la sorprendente domanda, la Mercedes è solo e sempre stata un’auto che sfreccia per strada e pochissimi, sentendo questo nome, sospetterebbero oggi che si possa trattare di una donna.
Io invece, fino agli anni del liceo quando ho sentito dire  Mercedes ho sempre pensato all’amica che abitava sul mio stesso pianerottolo di casa, la figlia dei vicini più grande di me di tre anni, che nonostante la differenza d’età – rilevante in quella stagione della vita – è stata ideatrice e complice di terribili marachelle, ma anche organizzatrice di balli e commedie con cui abbiamo intrattenuto i vicini di casa (con me protagonista “in scena” e lei nel ruolo di regista). Mai avevo sentito citare Maria de la Mercedes, né avrei sospettato che quel nome fosse traducibile come mercede in quanto perdono, o pagamento. Quanto alle auto, ce n’erano talmente poche in circolazione ed erano così lontane dal mio mondo di ragazzina, che non sapevo nemmeno che ce ne fossero di varie ‘marche’. Per dire come fosse diverso da quello contemporaneo il paesaggio cittadino di quel tempo, devo ricordare le botteghe con i cassetti dal frontalino in vetro per mostrare il contenuto, la pasta alimentare sciolta, devo ricordarmi dello zucchero venduto nella carta blu (carta-da-zucchero) che veniva anche applicata, umida, sui lividi che ci procuravamo noi ragazzini cadendo e giocando, devo pensare al latte venduto in bottiglie di vetro spesso, a rendere, con il coperchietto argenteo su cui era impressa la data di scadenza.
(Solo molti anni dopo, quel nome ha acquisito la consistenza di un’auto, forse addirittura ascoltando Janis Joplin cantare Mercedes Benz; ma la mia amica dell’adolescenza era ormai un ricordo lontano, travolto da nuovi incontri e altre storie).
Con la Mercedes ci si vedeva tutti i giorni; avevamo orari e compiti di scuola un po’ diversi – lei alle medie e io ancora alle elementari dalle suore. Io avevo una gran passione per il ballo e lei possedeva un grammofono; i suoi genitori erano ricchi, ma moderatamente, come si usava allora, senza auto né accessori lussuosi. Suo padre aveva una fabbrica di occhiali da sole, e sono convinta che potrebbe anche tornarmi in mente il nome. L’agiatezza si concretizzava nelle vacanze al mare in albergo, e nell’appartamento con un locale in più – quello che ora chiamiamo soggiorno – che aveva un balcone in pietra affacciantesi su via Venini; e da quel balcone, un giorno, la Mercedes mi convinse a sputare mentre passava una signora con cappello ad ala larga e un’ondeggiante gonna godè. L’idea era che lo sputo finisse sull’ala del cappello, ma io sbagliando i tempi e sbavando con qualche esitazione andai a colpire proprio la gonna: la donna – ricordo ancora lo sgomento che mi prese – alzando di scatto la testa ci colse sul fatto e salì inviperita fino al secondo piano. Ci andò bene perché eravamo sole in casa, i genitori erano via e io pulii diligentemente la gonna, che mi sembrava elegantissima, sotto gli occhi inferociti della vittima a cui chiesi umilmente scusa. Quella volta la Mercedes fece la parte dello chaperon a cui ero sfuggita di mano, ma ci sono state molte altre occasioni di complicità con quell’amica più grande, che però poi frequentai a intermittenza, perché crescendo io facevo anche altre amicizie e soprattutto mi si delineava un percorso diverso da quello suo; lei intanto si allontanava, tanto che non ricordo nemmeno che scuola frequentasse alle superiori. A un certo punto suo padre morì d’infarto – lo ricordo disteso, sul letto matrimoniale, ma non ho memoria di lacrime della mia amica, né di un clima di lutto, quasi come se quella morte fosse stata naturale e pienamente accettata. Da quel lutto passo repentinamente, quasi non ci sia stato niente in mezzo, a un matrimonio della Mercedes con il ricco proprietario della filanda di Roubaix, un matrimonio lontano invisibile e forse combinato, in un luogo molto a nord, e mi rimane il ricordo di sua madre che, ormai sola, veniva a prendere il tè da noi e a mia madre raccontava che la Mercedes ora viveva in un’importante famiglia, dove la madre del marito aveva sempre con sé un gran mazzo di chiavi che aprivano (e chiudevano, a me veniva in mente) tutte le porte di casa, armadi e dispense inclusi.
Sul nostro stesso piano, in via Venini, abitava un medico ortopedico con l’hobby della scultura: aveva ritratto la mia amica modellandone una testa in terracotta; era il suo dono di matrimonio. La testa, molto somigliante all’originale e la scritta alla base – Mercedes -, mi sono tornate in mente diverse volte – il ricordo si intreccia con altri di anni diversi e meno lontani, quasi ne fosse il capostipite.
Consultando testi che raccontano la storia dell’industria in Europa, ho letto che la filanda Motte a Roubaix è stata la più grande e importante di Francia e, vittima della crisi industriale di quel settore, ha chiuso l’attività nel 1981. Restaurati e recuperati successivamente, gli edifici della filanda ospitano dal 1991 gli Archives Nationales du monde du Travail; le foto dei luoghi mostrano un complesso enorme, monumentale, e mi chiedo se da qualche parte vi sia rimasto un pezzetto della vita della Mercedes con cui ho ballato e giocato in via Venini, prima di capire che sarei andata via di lì.

Piazza del Carmine


La piazza è dietro Brera, la raggiungi – e sono pochi passi – per una via che mi pare porti lo stesso nome, che risuona come una campana. C’è una bella vecchia chiesa che fa da quinta su di un lato. E’ una Milano silenziosa, lì, soprattutto in certe ore della giornata e certo il sabato mattina. E’ il posto perfetto per incastonarci un gran signore. Ricco e signore, un uomo d’acciaio, come l’idea che ti potevi fare di lui incontrandolo, o osservandolo da lontano; un uomo senza sbavature, signore (e pure bello!) come lo sono alcuni uomini che hanno il mondo dentro, senza un filo di compiacimento.
Devo andare subito a Milano per riguardare la piazza e ricordarmelo; per ritrovare quell’idea di sorriso che viene da una storia di coraggio, passioni, buona educazione e grandi progetti; una storia che non conosce volgarità, lontana mille anni da violenza verbale e l’arroganza da quattro soldi che qualche volta – da vecchi – si ha la sfortuna di incontrare.
Come in una foto d’autore, lui era seduto parlando con amici, i tavolini seminascosti dalle siepi scure coltivate nei vasi, la bella chiesa nello sfondo, i colori di Milano d’autunno, cielo compreso, a compattare il ricordo, la camicia bianca e il mormorio beneducato circostante. La nostalgia è birbona, ma la memoria è brava a sostituirla perfino da lontano nel tempo e di chilometri. No, non era una fantasia, l’eleganza non me l’ero sognata e il ricordo è vivo, nonostante la lontananza.

Ladro di Pace, e di contanti

Quando si sta in un piccolo paese e ci si accorge che succedono fatti inquietanti, ci si mette a scrivere, anche  sollecitati da timori e brutti presentimenti; si scrive magari  per scaramanzia, ma si è anche indotti a farlo dalla lettura quotidiana di notizie che parlano di persone un po’ fuori di testa (non si sa se davvero o per finta), gente che poi si scopre aveva armi in casa e qualche volta ha combinato brutti guai.
Si tratta di personaggi che appellandosi alla voglia di proteggere (ma da che cosa o da chi non si sa) si comportano in modo inizialmente un po’ stravagante, e poi però si fanno largo con pretese inaudite, chiedono – e qualche volta ottengono – soldi in prestito che non restituiscono, ordinano lavori (imponendone i tempi d’esecuzione) che non pagheranno mai, vessano i deboli e si arrogano diritti d’ogni genere – intimidendo persone anziane, approfittando senza riguardi dell’interlocutore inerme.
Le azioni più “innocue” (qui le virgolette sono indispensabili) di cui si rendono protagonisti ai danni dei vecchi abitanti – tutti d’un pezzo e per questo colti di sorpresa – sono circoscritte alla richiesta di farsi pagare qualche bolletta del cui importo si trovano casualmente sprovvisti: ma sono soldi che non verranno mai restituiti ai vecchi pensionati, come pure i prestiti carpiti grazie a una “reputazione” (anche qui le virgolette sono necessarie) abusata.
Poi però inizia una serie di subdoli eventi per dividere gli abitanti; vengono sparse dicerie, si diffonde l’idea che ogni comportamento un po’ diverso, o troppo indipendente, vada punito.
Perciò se sei un lavoratore extra-comunitario, una donna non allineata alla mentalità comune, un vecchio troppo riservato, uno straniero in cerca di una sistemazione, o semplicemente qualcuno che si ribella a queste nuove regole, a quella specie di protezione che si vuole imporre, sarai vittima di dispetti, di incidenti, fino a giungere anche a gesti spaventosi  – magari compiuti con il favore della notte -, come la ripetuta rigatura notturna dell’auto, la foratura notturna dello pneumatico che suscita stupore nel gommista, il furto notturno di tergicristallo, fino al ripetuto sabotaggio notturno brutale e pericoloso del tuo mezzo parcheggiato nel modo che non piace.
Ma con la stessa puntualità usata per vendicarsi dell’indipendenza altrui, verrà anche scassinata la cassetta delle offerte nella chiesa, verranno rubati soldi dalla casa di un’anziana signora, sarà rubata la borsa con contanti appena prelevati da un’auto lasciata per tre minuti fiduciosamente aperta (perché in certi angoli del paese non c’è mai nessuno), si ruberà dal portafogli di un’altra signora fiduciosa e  distratta solo per pochi minuti; poi dalla casa di persone troppo candide, che preferiscono tacere, inghiottire e vergognarsi in conto terzi, sparirà più volte dell’altro contante; e viene perfino derubato un turista che, acquistate alcune cassette di vino le ha imprudentemente caricate in auto di giorno in piazza, e al mattino dopo ha trovato l’auto saccheggiata. Uno stillicidio di furti a pensionati.

Un paese, un piccolo paese, di solito è un posto dove accade poco: qualche pettegolezzo e qualche chiacchiera un po’ alle spalle di tutti; in questo nuovo tempo di pandemia si sente anche più comprensione e un po’ di solidarietà tra nativi, villeggianti e residenti temporanei, un sentimento in cui si ritrovano più o meno tutti. E’ qualcosa che ha permesso anche a chi il paese l’ha conosciuto tardi nella vita, di lavorare, di vivere e invecchiare, stando in una piccola isola di pace, sentendosi al sicuro, senza la necessità di speciali protezioni, né di ronde notturne.
Succede così di dover scrivere, per dare voce alle timidezze paesane, agli eccessi di prudenza timorosa; per riavere la pace e tenere al riparo i pochi contanti.

Storia vera da non credere

Credo che ci sia da qualche parte, in una delle centomila scatole in cui ho accatastato i documenti del racconto che stenta a prendere forma, una mia foto in un ridottissimo bikini provenzale a fiorellini su fondo quasi nero. Lì, sto uscendo dall’acqua su una spiaggia ripida e sassosa che potrebbe essere quella di Vernazza; ma lo immagino senza avere la foto sottomano. Sapevo di essere leggermente troppo in carne per quel tipo di costume, che richiederebbe un po’ più di slancio tra fianchi e vita, qualcosa che ho inseguito per buona parte della mia vita, pur non facendomene un cruccio. La foto me l’aveva scattata un tale di cui non ricordo il nome, e non ricordo nemmeno come l’avevo conosciuto, e di preciso stento a ricordare che lavoro facesse – un elemento, quest’ultimo, che invece mi aiuterebbe a capire le vie di quella conoscenza -; è possibile che io l’avessi incontrato in un’officina, perché in quegli anni spesso passavo qualche ora libera a tenere maniacalmente in ordine la Mini, smontando e pulendo il carburatore (SU doppio corpo, molto delicato), e cercando di imparare dal meccanico, che preparava auto per le corse in salita, tutti i trucchi per migliorare le prestazioni dell’auto.  Se quel tale l’ho conosciuto in officina, allora doveva trattarsi di Zanardo – un meccanico serissimo e affidabile che conoscevo da tempo.
Ed è probabile che il meccanico fosse proprio Zanardo, perché il mio ricordo include anche una Porsche che il tipo che ha scattato la foto doveva aver acquistato con un guadagno extra, forse qualcosa di illecito; una Porsche che ogni tanto spuntava dai suoi discorsi. Mentre scrivo è come se riavvolgessi il filo di questo ricordo e viene fuori l’idea che quel tipo incidesse clichè, altro elemento plausibile, perché io facevo l’art director e allora – pochi decenni prima del pieno avvento del digitale – frequentavo anche incisori, preparatori, rotative, e stampatori di tutti i tipi. Nel ricordo emergono le voci e la cadenza della parlata del meccanico e dell’altro – entrambi venivano da quella terra dove la dolcezza giorgionesca delle colline si stempera per trasformarsi in un territorio che attrae per suggestioni più complesse – che avevano cadenza, parole e accenti friulani.
Quello di cui sono certa è la superficialità della conoscenza con quel tale, forse legata a un progetto grafico che mi aveva proposto. Non so perché mi avesse scattato quella foto e non riesco a ricostruire perché fossimo al mare insieme, e forse la spiaggia non era quella di Vernazza, ma un’altra non troppo distante da quella: sì, poteva trattarsi di Riva Trigoso. Erano anni in cui d’estate andavo su e giù per il passo della Scoffera e tutti quelli che frequentavo li portavo a conoscere una delle spiaggette di cui è disseminato quel tratto della costa ligure, perché al mare ci andavo spesso.
Il ricordo sarebbe davvero una scheggia minuscola e dimenticabile, se non fosse intessuto di un colore che poco a poco, mentre ripenso a quell’episodio così lontano nel tempo emerge, sollecitato da una voce che parla alla radio di un luogo incantevole e misterioso, riportandomelo al presente. Il colore è azzurro come quello di certi smalti persiani, o di una tessera di mosaico bizantino. Azzurro e turchese risalgono la mia memoria quasi fossero piccole onde di colori che si inseguono senza mescolarsi mai.
Il tipo che mi aveva scattato l’istantanea aveva famiglia a Sacile, e pur non avendo interesse per me in quanto donna, mi aveva proposto un breve viaggio nei luoghi da cui proveniva anche mio nonno Arturo – padre di mio padre, agronomo, morto settantanovenne quando avevo diciassette anni -. Il Friuli allora non lo conoscevo e non mi interessava molto: sapevo solo che dovevo essere fiera di avere anche ascendenti nati lì, in una terra dalla poetica misconosciuta; io Pasolini non lo conoscevo ancora.
Il viaggio in Porsche fino a Sacile non me lo ricordo, ma in quel tragitto, verso Udine costretti, o indotti, a una retromarcia impegnativa dopo aver imboccato un lungo viale privato che si era rivelato l’accesso a una villa di qualche notabile dei luoghi, ci eravamo ritrovati a percorrere, in direzione opposta a quella di poco prima, un rettilineo affiancato da un fosso – una strada deserta su cui stava pedalando un ciclista -. Ricordo all’improvviso un oggetto, che mi pareva partito dall’auto, volare superando il ciclista, passare sopra la sua testa e piombare nel fosso, mentre l’auto si inclinava un poco raschiando l’asfalto, abbastanza ben controllata dall’amico il cui nome continua a sfuggirmi. Non ricordo se il ciclista si fermò – mi sembra di no -, né come fu rimediato l’infortunio che avrebbe potuto essere tremendo (soprattutto per il ciclista), ma invece ricordo benissimo le due parole “bobiglia” e “spinotto”. La bobiglia con cui si avvitava la ruota nella sua sede doveva essere fermata da uno spinotto di cui non trovammo traccia, mentre recuperavamo i resti della ruota tremando dallo spavento per quello che avrebbe potuto essere un bruttissimo incidente. Chissà se le parole erano proprio quelle?, tuttavia mi sono tornate in mente ogni volta che ho visto i cerchioni di una Porsche di quel modello.
Quel viaggio a Sacile, oltre all’incidente e a una prima colazione leggendaria in casa dei parenti del proprietario della Porsche, mi ha portato a conoscere una delle due “vaucluse” europee e aveva in serbo per me una scheggia di colore. Di quel colore sta parlando una voce alla radio facendomi ricordare quell’episodio – quello che parla è uno che ama i luoghi, li conosce molto bene, e li mette in relazione con quelli del Petrarca, alle sorgenti della Sorgue.
Acque di risorgenza, quelle, esattamente come quelle del mio ricordo del Gorgazzo, dove nasce il Livenza.
Ma ritornando al mio conoscente dimenticato, più di un elemento del ricordo me ne fa risorgere un altro, quello di uomo che ho incontrato forse tre decenni dopo. Anche lui era del nord-est e mi aveva convinta a prendere in considerazione l’acquisto di un pezzo di terra a Montalcino dove avevo un podere e dove l’avevo incontrato casualmente. La terra era qualcosa a cui non avevo mai pensato prima di conoscere Gerardo (sì di questo conoscente, di passaggio nella mia vita, ricordo il nome e – va da sé – un bel po’ d’altro). Anche lui aveva un aspetto imperscrutabile e vagamente ambiguo, ben rivestito da modi civili e passione per la natura e per l’acqua; anche lui forse si occupava di cliché, anche lui aveva a che fare con qualcosa di strano, qualcosa di segreto e forse illegale; forse addirittura con un progetto criminoso.
E questo è un altro filo da inserire nella trama della mia storia, un filo con molti nodi mai sciolti, che potrebbero diventare più leggibili dopo un imminente incontro con la donna che conosce nei dettagli quello che io finora ho solo immaginato.

 

O tornozelo*quebrado (una riflessione)

Sono affascinata dalla puntualità degli imprevisti, dalla capacità del fato di mettere lo zampino nella tua vita, talvolta anche lanciandoti degli avvertimenti sotto varia forma.
Mi sembrava, anni fa, di essere entrata in quella che definivo mentalmente “the age of steam” (come l’album d’antan di Gerry Mulligan); ho avuto quest’impressione quella volta, e forse c’ero nell’età in cui senti dentro di te un’immanente forza propulsiva, ma il destino ha deciso altrimenti. O sono stata io, magari, a mandare all’aria i miei stessi piani? Certe letture le puoi fare solo molto tempo dopo.

Ne scrivo ora perché torno ad avere quell’impressione; è qualcosa che ti viene da dentro, come capire che un tempo si è compiuto e devi dare una svolta alla tua vita. Ora mi succede di voltarmi indietro e chiedermi (“caro diario, ti assicuro, senza alcun compiacimento”) come ho fatto a farcela, a uscirne in piedi – barcollo, ma non crollo? – a ritrovarmi lucida e nitida, con un’energia che anziché bastonata da eventi, incontri, alterne fortune, e una vita vissuta prevalentemente in Italia, rinnovata addirittura dalle presumibili difficoltà che potranno sopraggiungere, appena svoltato l’angolo? Domanda non retorica, di cui conosco la risposta, ma non è – qui, ora – il momento di condividerla.

Perché ormai ho scritto una complessa dichiarazione di pace; no, non è una resa, è ben diverso da una resa, è (“caro diario!”) una presa di coscienza, una deglutizione di bocconi d’incontri, di scontri, di incomprensioni (mie: sono lenta a capire le seconde intenzioni dei malintenzionati); è forse l’ingresso in un’age of steam procrastinata. Chissà. So che devo darne conto, almeno a me stessa e il titolo rimarca sia il momento in cui mi è venuto di fare il punto della situazione, sia la mia persistente passione per una lingua che mi sta aprendo un mondo. Che sia davvero un’age of steam non lo so, tuttavia mi piace pensare che possa esserlo.

Gerry Mulligan è stato uno dei compagni della mia giovinezza, ai tempi di Brera e dei concerti di Norman Grantz al Teatro Manzoni. Tra quei giorni (e c’era pure la Galleria Blu con Yves Klein) e l’oggi, nella mia vita sono passati Bruno Munari e Serge Libis, Marino Marini e Achille Funi, Augusto Morello e Carlo Argan, Milano San Felice e il Dixan, Claude Neuschwander e la Philips, Mario Malloggi e l’Abbazia di Royaumont, Marcel Bleustein Blanchet e Armando Testa, Albe Steiner e la mitica Mitzi Roncetti, Leonardo Mondadori e Tiziano Maria Barbieri, un colpo di pistola e l’incontro con un tale; e perfino Michail Gorbatchev e Gina Lollobrigida, Giorgio Armani e l’Opera Pia Trivulzio, … Silvio Berlusconi e Gabriel Garcia Marquez, Andreotti e …

E ora che guardandomi intorno capisco che un altro imprevisto è molto prevedibile, vedo una bella campagna alla fine dell’estate; inizio a odorare un vago sentore di mosto e penso che davvero qualche volta un incidente di percorso può essere utile per salvarti dal peggio. Almeno per ora, e non solo scaramanticamente.    *Tornozelo: s.m. caviglia

La Mamma è gratis

Cara Mamma non so se te l’avevo mai detto, ma quando ho scritto, disegnato o fotografato, l’ho sempre fatto di pancia, sull’onda di un’emozione che mi è arrivata così – non so mai bene come e perché; poi però, guardando le immagini o leggendo lo scritto, quello che avevo fatto mi è sempre sembrato carente, povero, o addirittura brutto. Se invece riaprivo l’album dopo un anno, tutto mi sembrava molto interessante, mi piaceva. Chissà perché: ero cambiata io, oppure quello che avevo messo sulla carta (o magari online) era diventato attuale rispetto alla realtà? Sono certa che tu avresti avuto una risposta interessante da darmi a questo proposito, e anche un parere intelligente.
Ecco mi mancano i tuoi pareri intelligenti e scarni … perché ci beccavi sempre.
Ora è raro incontrarsi con chi ha queste belle abitudini – intelligenza, riflessione, uso di mondo, buongusto – e ci si accontenta di pochi momenti interessanti con persone che sembrano sempre di più piccole miniere con cui compensare le diffuse e frequenti imperfezioni quotidiane.
Se tu fossi ancora tra noi, di fronte a questo mio pensiero diventeresti sarcastica. Allora mi sembravi cinica, coniavi aforismi commentando la vita quotidiana, lo facevi di continuo. Sembravi cinica ma invece era il tuo modo di mettere un po’ di distanza tra gli eventi e i tuoi sentimenti: quel poco che serviva a mantenere un passo dietro l’altro nel quotidiano, senza perdere l’equilibrio, resistendo ai venti della vita che per te non è stata facile – due guerre, sette fratelli morti, un padre giocatore e debosciato, la spagnola, a sedici anni andare in Inghilterra, trovare lavoro e imparare l’inglese -. E poi sposarti, con mio padre e con l’eleganza che mettevi in tutto; con il tuo mitico coraggio, di cui parlo spesso perché mi ha ispirato più volte, e mi ha – a sua volta – dato l’energia per tenere a bada e risolvere le grane, le bufere, le perdite che ho dovuto affrontare; con il tuo proto-ecologismo quasi maniacale (il rispetto per chi raccoglie i rifiuti, mangiare solo quello che la stagione e i luoghi offrono, l’attenzione alle regole e tutto il resto). Non ho consumato tutto quello che mi ricordo di te, mi sembra di avere ancora da scavare e a volte, ripensandoti e ricordando com’eri, mi sembra di avere ancora da raccogliere suggerimenti e innovazioni.
Incredibile, no? Eppure è proprio così, sei stata una miniera – lo sei ancora – e credo che questo sia il più bel complimento da fare alla propria madre. Mi hai così poco baciata però mi hai dato tanti attezzi per vangare a fondo il mio campo. Una madre lunare e un po’ lunatica sei stata, ma molto utile: come può esserlo una mamma vera che non ama le sdolcinatezze. Chissà se anch’io sarò riconosciuta così, un giorno? Forse non mi dispiacerebbe e il ricordo è gratis …

Vento di fine anno

Ritorno alla Costaccia dei Fagnani, in questo pomeriggio di dicembre, con il sole a taglio basso che ripartendo dal recente solstizio ha già un altro gusto. Erano anni che non svoltavo di qua, verso la loro aia ricca di humus; dove la vita – che brulica tra le foglie in terra, i frutti marciti, gli stecchi e un po’ d’insetti in fasi transitive verso le forme che solo gli entomologi conoscono intimamente, con verdi inaspettati di muschio che sfolgorano di colpi di luce che bucano l’immaginazione -, non è solo metafora, è quasi la cronaca di quarantacinque anni (giusti giusti, in questi giorni) dall’acquisto di una casa che è diventata un mondo; debiti, viaggi, muratori, errori, chilometri, riunioni, feste, musica, compleanni, litigate, tradimenti, notti insonni, gatti, cani, amici morti e vivi, sguardi in tralice, discussioni, tradimenti, eleganza, curiosità infinite, tradimenti, alberi, querce vive morte risorte, muri che cadono, operai che non vengono, porte da cambiare, insulti e disconoscimenti, tradimenti, travi da cambiare, scarabei rinoceronte, persiane abusive, finestre aperte, chiuse, riaperte richiuse, scoperte di tesori nascosti in bellavista, tradimenti, anni, mesi, chilometri, estati, fichisecchi, candele, acqua che manca, le lunghe pause degli operai dell’Enel con merenda nel bosco, i vicini, gli ospiti, i poeti, le altre feste, fosse biologiche che rigurgitano, altre fosse biologiche, le visite della poiana, querce che cadono (tre!) e cercano di ammazzarti, notti di cieli stellati, la pompa dell’acqua che non pesca, la luna che sorge dal poggio nel luglio, i vicini che pompano l’acqua, Picchio, Pocchio, gli orti con le buche delle fate, l’annestino, il Pulcino che frantuma i massi col fuoco e con l’acqua, gli ospiti, Gastone che accende il forno, le teglie, i piatti, la musica, i Premostratensi che vengono a pranzo, l’organista Mascheroni, Pasqua, Natale, il cortile da ripulire, il serpente vaccaro, l’eternit da eliminare, l’arpa che arriva da Milano, le marimbe e Ben Omar, i tappeti sulle lastre del cortile, grilli, nacchere, timpani, conchiglie, piantare alberi, piantare fiori, piantarla, Armando e Rosa che vendemmiano, i Fagnani che hanno il dito verde e vengono a darmi una mano, bambino piccolo, bambini piccoli, gli amici dei bambini, amici, gli amici degli amici, prendere il sole, tornare alla grande casa che dall’aia dei Fagnani non si vede, ma se ne ascolta la presenza.
Sta accovacciata sul poggetto in cima alla salita, come un animale non completamente addomesticato – lì, in un altro tempo c’era il mare, il fondo del mare, ora, dal basso, se stai in silenzio puoi sentirla respirare, e guardarla per vedere la sua storia – la strada che porta fin su è vecchia di centinaia d’anni, ci hanno camminato  preti, soldati, contadini, viaggiatori. Attraversa boschi, vigne e radure, attraverso la mia vita.

 

 

 

 

 

I cavoli a merenda

Tra le quattro e mezza e le cinque meno un quarto del pomeriggio nelle stagioni calde sento spesso un languore particolare; è una sensazione remota, appena un’eco di qualcosa che viene da un passato remoto e con un ricordo preciso.
Sto seduta su uno sgabellino solido ma un po’ sbilenco, basso perché costruito a misura di bambino, la schiena appoggiata alla rete da cui escono mille foglie e rametti di una natura rigogliosa e incontenibile e, tra le foglie e gli steli di così tanti verdi, si possono intravedere altri colori – zinnie e dalie e phlox e ranuncoli, e anemoni nei due classici colori -. sono una bambina un po’ pigra e meditativa, tendo a indugiare lasciandomi trascinare dai pensieri infantili che non prevedono morte e altri dispiaceri.
Del resto la guerra è finita e ora sul pane c’è sempre il burro buono che viene dagli alpeggi che stanno dietro le montagne lì intorno; la guerra è finita e io ne ho visto un bel pezzo, ma i ricordi stanno sfumando, rimescolati dalle attenzioni rivolte alla piccola di casa. Il rastrellamento in cui hanno preso mio padre, lo spavento per una sventagliata di mitra giù nella valle, quell’uomo che veniva giù dal cielo attaccato a un grande pallone bianco, l’aereo che girava ronzando sulle case sparse, quelli in divisa che parlavano con la nonna chiamandola ‘mutti’, in una lingua diversa da quelle altre che parlavamo tra noi, in casa; poi anche un grande rombo e la polvere bianca che cadeva dal soffitto sul tappeto rosso sangue che ricopriva il tavolo attorno a cui si cenava.
Ora tutto scivolava serenamente tra il pigolare di una nidiata di pulcini che la nonna mi aveva mostrato in segreto, il golfino bianco fatto con l’angora dei conigli che una notte sono spariti, la pasta fatta in casa con la farina trovata alla borsa nera e le uova del pollaio della nonna.
Sto seduta sullo sgabello a misura di bambino e mi torna in mente lo spavento più grande – quello che non dimenticherò mai – quando un aereo ha sganciato in mezzo al grande prato verde, accanto al campo dei fagioli, un micidiale spezzone incendiario. In mezzo al prato c’ero io, con la zia e il mio volpino bianco, forse destinati a diventare danni collaterali ante litteram.
Quell’orto e quel prato non ci sono più, e nemmeno la casa della nonna, ma lo scoppio assordante non riuscirò mai a dimenticarlo, e nemmeno la forma contorta del mucchio di metallo fumante. Quello rumore forte e vicinissimo ritorna spesso nei miei pensieri, anche se ora c’è un altro orto – quello dove sto seduta ora a fare merenda – un’altra casa, dalle cui finestre posso vedere lo spiazzo, dove c’era la casa della nonna, che ora è tutto occupato dalla segheria. Così assorta mi riscuoto con un sussulto per difendere il piatto dall’assalto dei pulcini che in poco tempo sono un cresciuti e sembrano una banda scalmanata, indifferenti alla presenza della grande chioccia che cerca di tenerli insieme. Finita la guerra, la merenda ora è più abbondante, anche se tutto è ancora razionato. L’ho sentito dire, ascoltando i ragionamenti di nonna zia e mamma, che di sera discorrono del futuro, una parola di cui non afferro il senso. So di essere “la bambina” o “l’enfant“, al centro dei loro pensieri: gli uomini hanno altro da fare – confini da varcare, case da recuperare, lavoro da inventare -. Per me è stato bello traslocare in questa casa che mi sembra più accogliente di quella vecchia, abbattuta insieme al grande ciliegio che le stava davanti. Poi c’è l’orto nuovo che ci dà da mangiare, e il pollaio, ora molto più modesto ma più vicino a casa, e tanti fiori che la nonna ha piantato e seminato, e che sono la passione di mia madre; poi c’è un rospo enorme che invece è l’alleato di mia nonna nella sua perenne lotta contro lumache e altri piccoli animali che divorano le belle foglie verdi delle nostre verdure – quelle che fanno bene “alla bambina” -. La merenda che mi hanno dato è pane bigio spalmato di burro e poi di miele; il miele abbonda, lo zucchero invece scarseggia ed è razionato. Il miele lo fanno le api della nonna che pianta fiori e lavande tutto intorno, e non costa se non il lavoro quotidiano: ma questo io non lo posso sapere; lo zucchero si trova alla borsa nera ed è più caro. Ho abbandonato quelle merende pochi anni dopo, preferendo il pain d’èpices che mi faceva sentire più grande, ma negli anni avevo anche amato molto l’uovo sbattuto della zia. In quella casa – della famiglia di mia madre – sarei tornata, ma solo durante l’estate, anche dopo la morte della nonna, che avevo visto un’ultima volta salutarmi dalla finestra della sua camera – molto vecchia, piuttosto severa, terribilmente lucida fino all’ultimo dei suoi giorni -.
Di quegli anni mi è rimasto il ricordo dell’orto come un piccolo paradiso dove trascorrevo ore irripetibili nei lunghi pomeriggi estivi, leggendo accoccolata nell’angolo dei phlox, nel bel fresco delle verdure, con il gorgoglio dell’acqua dello stretto fosso d’irrigazione, bordato di erbe e abitato da creature sconosciute ai miei nuovi amici di città. E mi torna la voglia di una merenda, perché sono una bambina che si ricorda della guerra.

Da dove vengo?

 

E se Facebook fosse una sindrome?
Lo penso nel momento in cui mi sveglio e la mente è libera di ricordare chi sono. Nell’impasto di idee e pensieri ritrovo il filo della mia esistenza. Penso a mia madre che partiva per Londra, a sedici anni non ancora compiuti, per andare a fare l’au pair in una famiglia altolocata e beneducata e imparare l’inglese quello vero. Penso a mio padre che volava da Tripoli a Torino, e raggiungeva la famiglia accompagnato da un libico in giacca e cravatta, nella nostra casa milanese. I ricordi sono intatti, ma gli anni trascorsi sono tanti e ora so che biglietti, cartoline e libretti, che testimoniano quello che ricordo e gli danno consistenza, sono preziosi. (Mi viene in mente il grande Nabokov, perché leggendo – e rileggendo – il racconto dei suoi esìli mi ha colpito il legame tra i momenti della vita attraccati a oggetti precisi).
Di certo Facebook ti succhia il cervello.
Le foto, sembra un paradosso, oggi raccontano poco, anche perché ora sono diventate invadenti e sovrabbondanti (con predominanza oscena di pezzi di carne cotta addobbata con l’idea di essere attraente). Ora che tutti afferrano il “telefono” e lo puntano sulla cosa, senza avere un’idea di forme colori né bisogno di pause in un racconto (senza neppure pensare all’effetto che fa a chi guarda), le foto esprimono sempre meno: pochi le usano per raccontare, troppi le usano per vendere senza chiedersi nemmeno come si fa.
Una cosa però la dicono le innumerevoli foto che intasano la rete: raccontano chi siamo e che cosa abbiamo in testa.
Facebook è uno specchio per bistecche e Chris Broadbent esiste solo nei miei ricordi?
Svegliandomi penso alle lettere che arrivavano dalla Libia; ogni giorno una lettera o una cartolina. Le cartoline di Tripoli, molto lucide con le palme, raccontavano una città poco esotica e ben pettinata in cui andare per vivere felici; le lettere erano lunghe e molto spesso contenevano un involucro di carta stagnola che avvolgeva un sottile plico di dollari. Erano i guadagni di mio padre che dirigeva un casinò, che aveva il nome di una gazzella, frequentato da militari inglesi e americani.
Gli oggetti da toccare, per ricordare, ci sono; una piccola agenda color glicine, del 1922, su cui andavo a curiosare da piccola quando riuscivo a impadronirmene, testimone dei gusti di mia madre. Un diario di mio padre, rilegato, con dediche di clienti, grati per la simpatia e l’accoglienza. Un randello di bosso, ordinato a Cuneo da mio padre, per tramortire i clienti troppo invadenti: un randello professionale, il superstite di cinque – durissimi, un po’ nodosi, con cinghia di cuoio ben avvitata per maneggiarli meglio -. Non solo di carta, sono gli oggetti legati a un ricordo.
Facebook è un subdolo attrezzo da compagnia. Bisogna usarlo senza lasciarsi usare, ma è molto difficile.
Mia madre mi ha scritto di rado, forse perché ero sempre con lei; forse perché le riusciva difficile tradurre i sentimenti in parole scritte: lei era donna di colori con un incredibile gusto per abbinarli, senza farsi intimidire da accostamenti inediti. La prima educazione a guardare mi viene da mia madre, di cui ho sempre in mente ‘guarda, Silvana, se non guardi non vedi niente’.
Mio padre scriveva, scriveva e scriveva, quasi ne avesse un bisogno fisico; lo ricordo seduto per ore davanti alla macchina da scrivere, munito di carta carbone (uno strumento meraviglioso ora sconosciuto ai più), carta vergatina per fare le copie, matite, gomme e correttori vari di cui ogni tanto saltano fuori brandelli sbriciolati.
Le lettere e le cartoline a me e a mia madre, no, quelle erano tutte scritte a mano, con una grafia veloce capace di adattarsi allo spazio da riempire che veniva tutto occupato: ed era un segno di immenso affetto e attenzione per noi che leggevamo, io e mia madre, la sua famiglia, che riceveva, avvolti in numerosi fogli scritti quasi quotidianamente – con il racconto della sua vita e i progetti per i suoi periodici ritorni – quei sottili plichi di valuta avvolta nella stagnola per sfuggire a controlli postali e possibili furti.
La posta era sicura, allora; una lettera, indipendentemente dal contenuto era intangibile. Aprire la corrispondenza indirizzata a qualcun’altro impensabile e inaudito. E certo è strano, oggi, immaginare sottili buste di carta air mail, contenenti una discreta quantità di dollari volare dalla Libia a Milano, fino alla nostra casella della posta, aperta e appesa accanto alla guardiola della portineria di via Venini. Al sicuro, come i miei ricordi.
Da lì vengo e anche da più lontano; mi aggrappo a quei ricordi come a un salvagente per non naufragare nel mare di bistecche ben cotte e mal fotografate da apprendisti maldestri che insidiano la mia navigazione con frasi sgrammaticate, che nelle loro intenzioni dovrebbero essere suggestive. Cerco una pattumiera.
Sfuggire al controllo di Facebook è possibile(?).